Antonio Biasiucci alle Gallerie d’Italia di Torino
di Luca Sorbo
La ricerca visiva di Antonio Biasiucci è stata fin dalle sue prime esperienze una riflessione filosofica sul mondo e sull’uomo. Nel primo libro Dove non è mai sera, del 1984, edito da Mazzotta, sul Matese ed i suoi pastori, Biasiucci indaga il reale per provare ad individuare il senso profondo dell’esistenza. Ogni sua pubblicazione è un diverso capitolo di questa indagine. Nel suo secondo libro è Vapori, del 1987, edito da CUEN, si confronta con il rito crudele, ma necessario nella cultura contadina dell’uccisione del maiale. Il suo fotografare è quello dell’osservatore partecipante, si immerge totalmente in una situazione che lo affascina, di cui avverte il mistero. Le fotografie sono la traccia di questo incontro/scontro. Attraverso la ricerca delle radici personali, indaga l’origine dell’uomo e gli elementi primari del reale. Un altro campo privilegiato sono i vulcani, testimonianza tangibile della terra al suo nascere. Ha una collaborazione con l’Osservatorio Vesuviano che gli consente di lavorare per sei anni a contatto con i vulcani. Dal Vesuvio, ai Campi Flegrei, all’Etna si confronta con la sua Hasselblad con la potenza della lava. Nasce il libro Magma del 1998, edito da Federico Motta.
Saranno ancora molti i libri e le mostre che in questi quattro decenni testimonieranno il suo incessante impegno ed è quindi da salutare con soddisfazione la decisione delle Gallerie D’Italia di Torino di dedicare la terza mostra sulla grande fotografia italiana proprio ad Antonio Biasiucci con la curatela di Roberto Kock. Le prime due mostre sono state dedicate a Lisetta Carmi e a Mimmo Jodice.
La mostra, che si intitola ARCA, presenta tutto il percorso del fotografo di Dragoni sotto forma di otto istallazioni che rappresentano le tappe principali del suo percorso. In tutto sono 250 foto.
È stata inaugurata il 26 giugno e sarà visitabile fino al 6 gennaio 2025
Molta della formazione di Antonio Biasiucci è avvenuta nei teatri di avanguardia di Napoli, principalmente partecipando ai laboratori di Antonio Neiwiller che ha conosciuto nel 1984. Proprio dall’esperienza teatrale ha sviluppato il suo metodo di ricerca fotografica. Le istallazioni sono pensate come scenografie in cui immergersi per poter ascoltare risonanze ed evocazioni.
Roberto Kock afferma: “Il nero profondo in cui spesso tutto è avvolto nelle fotografie di Biasiucci richiede allo spettatore uno sforzo particolare, quello di lasciarsi trasportare dallo stupore per poter vivere e riconoscere il lampo primigenio, la sorgente, l’origine della vita che riconosciamo in forme che si rivelano dinamicamente in trasformazione. Tutto ha a che fare con qualcosa di essenziale, come l’Arca che contiene archetipi o come la piramide, la costruzione utopica fatta di tanti possibili tasselli, di uno sforzo e di un sogno di assoluto.”
Il progetto “La Grande Fotografia Italiana” prevede che per ogni mostra ci sia l’intervento di un altro artista. E così sui tre monoliti che occupano lo spazio centrale della mostra, tra i pani, i teschi e i calchi di Biasiucci, ecco le apparizioni inaspettate di Mimmo Paladino. I suoi disegni primitivi, i suoi numeri incisi nel nero dell’inchiostro, in un dialogo intimo con le fotografie, sono forme immaginifiche e nel loro essere infiniti e anonimi ci parlano della molteplicità degli esseri umani.
Ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui, nel 1992, ad Arles, il premio “European Kodak Panorama”; nel 2005 a Londra il prestigioso “Kraszna/Krausz Photography Book Awards”, per la pubblicazione del volume Res. Lo stato delle cose (2004).
Biasiucci è stato invitato fra gli artisti del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2015.
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